Archivio mensile:settembre 2017

Il destino di Cassandra

IL DESTINO DI CASSANDRA ANCHE OGGI QUELLO DI MOLTI

Il mito di Cassandra, ce lo ricordiamo tutti. Lei annunciò la fine della sua famiglia, della corte, del regno e di tutto il suo popolo. Non taceva mai Cassandra, pur sapendo tali verità che l’avrebbero segnata per sempre e inevitabilmente come una pazza, portatrice lei stessa delle sventure che vedeva incombere su tutti. La crediamo fragile, ma la sua vita porta un peso tale, da farla entrare di diritto nella lista degli eroi più forti nelle epiche storie dell’ Iliade o dell’ Eneide, almeno quanto i grandi sovrani e i combattenti sui campi. Cassandra poteva fuggire, ma rimase fino alla fine, abbracciando anche l’atrocità che già conosceva e a cui non poteva dare alcun cambiamento. Sebbene in chiave meno romanzata, ci sono ancora persone come lei, che ogni giorno cercano di dire la verità, prima dei tempi. Ma questo gesto d’amore viene brutalmente lapidato. Come fare quindi a salvare qualcuno senza incutere paura? In un mondo di profezie nefaste, com’ è possibile si fugga proprio ai gesti d’amore?

a3b01ae89d14a09e9914ce2c789b--materialy-dlya-tvorchestva-zolotye-slezy-loskut-tkaniLA SINDROME DI CASSANDRA

Nella psicologia, il nome di Cassandra viene associato a soggetti che effettivamente nella loro “follia”, creano le profezie ed in seguito sono portati ad avverarle con tutte le conseguenze anche per gli altri. Una causa ed effetto quindi. Vedere la fine dell’umanità e non far nulla per impedirlo ci rende i veri colpevoli? Un tema davvero affascinante, se scopriamo che il motivo primo per cui i pazienti sopra descritti fanno da oracolo è quello di colpevolizzarsi da soli per tutti gli altri, portando cioè il peso delle colpe tutto su di sé. Sinceramente oggi chi lo farebbe … ci sono grandi gruppi, personaggi influenti, ma ci sono anche molti interessi, maschere, profitti, nuovi mercati della superstizione, chi si da davvero completamente? Neppure i pazzi alla fine, nel loro meschino orgoglio. Perché certi nomi della storia non muoiono mai neppure nel favoloso XXI secolo? Perché forse sono i veri sacrifici a colpirci! La coerenza! La profezia ci porta a compiere quello che crede la testa. Le scelte prese contro tutti e tutto, a favore di un bene istintivo e disinteressato, contengono forse la risposta.

IL LINGUAGGIO DEL “CUORE” 

Il “cuore” può svelare quello che sempre più sembra sfuggirci, è l’errore che stona in un mondo di buio e caos interiore. È più semplice arrabbiarsi, che ad esempio mantenere la calma, rispondendo a qualsiasi provocazione oppure richiesta di aiuto con un silenzioso sorriso, di sincera comprensione e fiducia. Un finto sorriso non ha lo stesso effetto. Un’angoscia interiore, agita e di conseguenza può essere trasmessa, ma la medesima angoscia può venire sedata da un animo ispirato, che conosce la realtà ma rimane fermo, perché crede sempre e comunque nell’ esistenza della giusta soluzione. Questa sicurezza deve poggiare su qualcosa di molto solido e non nell’ ipotetico tragico epilogo. Chi ama non ha paura di morire, può arrivare persino al massimo sacrificio , quello della propria vita, anche se significa molta sofferenza. Togliersi la vita non ha alcun valore, è una fuga. Scappare è paura. Cassandra ebbe un destino davvero difficile ma non abbandonò mai fino alla fine, la sua sofferenza fu portata all’estremo, ascoltò il suo cuore e si lasciò sopraffare. Pur non potendo cambiare nulla continuò, a fare quello che sentiva, portando con sé le stesse sventure tra il “nemico” vincitore. Tutto questo deve avere un significato talmente grande da sfuggirci nel suo pieno. Il senso simile a quello di molte vite attuali, che dal loro bisogno di amare sono portate alle azioni più eccessive quanto incomprese. La brutalità di vedere chi ci è più caro andare dritto verso il baratro e rischiare di finirci dentro con loro, con la speranza mai del tutto repressa che possa succedere qualcosa di “miracoloso” grazie solo alla buona volontà. Intanto sarebbe bene non intendere quello che sta succedendo come una fine, e poi partire da dentro di noi per aiutare gli altri, se cadiamo allora si che muore anche l’ultima speranza. Dobbiamo essere più forti della paura e dell’oscuro. Continuiamo a seguire quello che dice il “cuore” e non scoraggiamoci mai di fronte alle “profezie”.

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http://mondoparallelo711.altervista.org/cassandra/

Dipinti Gustav Klimt

Perché le cose hanno contorni?

Materiali per una riflessione sul “contesto” in Gregory Bateson

Parte prima – Cornice, contesto, comunicazione: riflessione a più voci.

“P. C’era una volta un artista molto arrabbiato che scribacchiava cose di ogni genere, e dopo la sua morte guardarono nei suoi quaderni e videro che in un posto aveva scritto: ’I savi vedono i contorni e perciò li disegnano’ , ma in un altro posto aveva scritto: ’I pazzi vedono i contorni e perciò li disegnano’.” [1]

La comunicazione umana si presenta come una continua sovrapposizione di processo primario e processo secondario (conscio ed inconscio).

Nella teoria freudiana classica si riteneva che i sogni fossero un prodotto secondario, creato dal meccanismo onirico. Si supponeva che il materiale, inaccettabile per il pensiero conscio, venisse tradotto nel linguaggio metaforico del processo primario per evitare il risveglio del sognatore…. A quel tempo, molti pensatori consideravano normale e ovvia la ragione conscia, mentre l’inconscio era considerato misterioso, bisognoso di prove e spiegazioni….Oggi riteniamo misteriosa la coscienza, mentre i metodi di computazione impiegati dall’ inconscio, ad esempio il processo primario, li riteniamo continuamente attivi, necessari e onnicomprensivi.  [2]

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Proprio per questa sua caratteristica, l’interazione tra esseri umani può dare origine a patologie, soprattutto quando non si individuano chiaramente i contorni, i contesti, le cornici all’interno dei quali si collocano i messaggi che continuamente ci scambiamo. Spesso ci sentiamo immersi in un “gioco di cornici” simile ad un “gioco di vele”, e non riusciamo a districarci dal “labirinto transcontestuale” che continuamente creiamo.

“Se, come dobbiamo ritenere, l’insieme della mente è una rete integrata (di proposizioni, immagini, processi, patologia nervosa, o quello che volete – secondo il linguaggio scientifico che preferite usare), e se il contenuto della coscienza è solo un campionario di varie parti e luoghi di questa rete, allora, inevitabilmente, l’immagine cosciente della rete come un tutto è una mostruosa negazione dell’integrazione di quel tutto. Ciò che appare sopra la superficie in seguito alla resezione della coscienza, sono archi di circuito e non i circuiti completi o i più vasti circuiti completi di circuiti. Ciò che la coscienza non può mai apprezzare senza aiuto (l’aiuto dell’arte, dei sogni e simili) è la natura sistemica della mente.”  [3]

Per dare senso (direzione) e significato agli atti comunicativi diventa necessario disegnare contorni, strutturare cornici, creare contesti.

“Ebbene, per esistere, le differenze non solo hanno bisogno di circuiti, ma anche di contesti, perché nel mondo della comunicazione niente può avere significato se non in presenza d’altro.” [4]

“Significato può essere considerato come un sinonimo approssimativo di struttura, ridondanza, informazione e restrizione, entro un paradigma di tipo seguente: si dirà che qualunque aggregato di eventi o oggetti… (ad esempio una successione di fonemi, un quadro, o una rana, o una cultura) contiene ridondanza o struttura se l’aggregato può essere diviso in qualche modo mediante un segno di cesura tal ché un osservatore, il quale veda soltanto ciò che sta da una parte della cesura, possa congetturare, con esito migliore del puro caso, ciò che si trova dall’ altra parte. Si può dire che ciò che sta da una parte della cesura contiene informazione o ha significato relativamente a ciò che sta dall’altra parte.” [5]

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Esiste anche un desiderio più profondo che ci spinge a creare contesti e cornici: cerchiamo di delimitare da un infinito che ci inquieta uno spazio più ristretto e rassicurante. Si evidenzia quindi come sia problematico e difficile apprendere a comunicare con se stessi e con il mondo che ci circonda. L’uso improprio degli strumenti a nostra disposizione può degenerare: le cornici possono diventare barriere, i contorni scolorare fino ad annullarsi.

“L’ascesa dei privilegiati, non solo in Lager, ma in tutte le convivenze umane è un fenomeno angosciante ma implacabile: essi sono assenti solo nelle utopie… Limitiamoci al Lager, che può servire da ‘laboratorio’: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E’ una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni dei servi.” [6]

“... quando il contrasto tra realtà viene fatto sparire e gli uomini non percepiscono più i confini al cui interno essi operano, allora si rischia di essere come i prigionieri della caverna di Platone, i quali… non sanno che esistono mondi al di fuori della loro caverna, non conoscono uomini che vivono senza catene, non hanno consapevolezza di essere prigionieri.” [7]

Un modo per evitare queste situazioni problematiche è imparare a vedere ed usare cornici e contesti come qualcosa di mobile. Per arrivare a questa percezione occorre molto apprendimento, dobbiamo apprendere ad entrare ed uscire dai contesti, a percepirne la mobilità, dobbiamo apprendere a praticare la distanza, la contraddizione, l’aporia. La percezione della mobilità dei contesti dà origine all’ abduzione e al pensiero metaforico, che permettono l’incrociarsi dei sensi e dei significati.

“P. Sì, ma la cosa che non mi sarei aspettato è questa. Che gli animali, che sono essi stessi in grado di prevedere un poco le cose, e di agire sulla base di ciò che pensano che stia per accadere – un gatto può acchiappare un topo saltando proprio sul punto dove il topo probabilmente sarà quando il gatto avrà completato il salto – ma è proprio il fatto che gli animali sono capaci di prevedere e imparare che li rende le uniche cose veramente imprevedibili del mondo. E pensare che noi facciamo leggi come se le persone fossero del tutto regolari e prevedibili!

F. O forse si fanno le leggi proprio perché le persone non sono prevedibili e quelli che fanno le leggi vorrebbero che gli altri fossero prevedibili?

P. Sì, forse è così.” [8]                         img02 (1)Ci può aiutare il gioco che ci insegna a “riconoscere” le cornici ed a esercitare il “coinvolgimento consapevole” che ci fa sentire contemporaneamente all’interno e all’ esterno. Il gioco mette in evidenza il paradosso del contorno: proprio perché isola e separa permette il passaggio e la comunicazione, permette la creazione di una distanza che unisce. Mentre si gioca si con-fondono realtà e finzione, si accetta il rischio dell’imprevedibilità degli esiti proprio come nella partita a croquet di “Alice nel paese delle meraviglie”.

“Come è possibile continuare il gioco in queste condizioni? Quando addirittura la mazza si volta a guardarci in modo buffo? Quando ci accorgiamo di essere non solo soggetti, ma anche oggetti di attenzione, non solo interroganti e descrittori, ma anche interrogati e descritti? Quando le regole che rendono possibile giocare devono sorgere interattivamente dal gioco stesso invece di essere date per scontate? Quando il presentimento ci avverte che, varcata la soglia che separa il paese “reale” da quello “delle meraviglie”, potrebbero darsi infiniti croquet, o altri giochi le cui regole non potremo in nessun caso prender per ovvie?… Basterebbe sostituire al fenicottero una mazza vera, spianare bene il campo e dotarlo di palle ben levigate. Ridurre cioè gli altri punti di vista alla misura del nostro. La situazione tornerebbe allora, come si dice, “sotto controllo”.” [9]

Il difficile apprendimento attraverso l’arte, la poesia, il gioco ci può far giungere a modificare la struttura in cui siamo immersi, a fare un salto di paradigma.

“Pensate a un uomo a metà di una salita, le gambe gli fanno male, ha il fiato corto… Il suo corpo comincia ad ululare. La cosa più ovvia da fare, diremmo, è sedersi, aprire lo zaino, mangiarsi la merenda e tornare a casa. Ma ci sono persone che stanno fuori volentieri per settimane, per compiere la straordinaria impresa che rientra in una sorta di gioco… Perché lo fanno?… Ora loro continuano e forse negli ultimi due giorni all’ improvviso tutto cambia e sembra diverso. Un cambiamento paradigmatico, di ordine molto profondo è subentrato. Si dice che il gioco non ha scopo, ma in realtà i suoi scopi sono di ordine paradigmatico. Noi giochiamo e cerchiamo di fare il salto. Quello che ho cercato di fare è incoraggiarvi a fare il salto.” [10]

Di quale misura sia il salto e di quale natura il paradigma che abbiamo lasciato non possiamo saperlo che a impresa compiuta. Il percorso è imprevedibile e incontrollabile come la vita.

“Un uomo viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’ oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’ argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. “[11]

“F. Ogni cosa sembra essere un’altra e io mi ci perdo.                                                          

P. Sì, lo so, è difficile. Il fatto è che le nostre conversazioni hanno un contorno, in un certo senso… se solo lo si potesse vedere chiaramente.”  [12]

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Parte seconda.

Del discorso, della bellezza, della saggezza.

I. I confini del discorso.

“S: Ah, per Era, che bel posto per riposare! Con questo platano così ampio di fronde e così alto! E che slancio quell’ agnocasto, che bellissima ombra! E’ al colmo della sua fioritura e spande profumo per tutto il luogo. La sorgente amenissima scorre sotto il platano con fresche acque, come si può sentire col piede. Dalle statuette e dalle immagini si direbbe un luogo sacro a qualche ninfa e ad Acheloo. E poi, la Brezza del posto, quant’ è amabile e dolce! Melodia estiva che risponde al coro delle cicale. Ma più gentile di tutto è quest’erba, sorta così soffice sul dolce pendio, da appoggiarvi comodo il capo per chi si sdraia. Sicché mi sei stato una guida stupenda, Fedro caro.

F: Tu sì, o mirabile amico, sei del tutto straordinario: che, proprio come dici, ti si prende per uno straniero menato dalla guida, e non per uno che ci abita. Che mai t’allontani dalla città, e non per passare il confine, ma neppure, mi dai l’idea, per mettere i piedi fuori dalle mura.”  [13]

Il contesto del Fedro, un dialogo per metà dedicato a tracciare i confini del discorso (e quelli, ancora più sottili e sfuggenti, tra discorso orale e scritto) è un “locus amoenus” fuori dei confini della città: uno spazio “naturale”, non “politico” fa da sfondo alla riflessione di Socrate e Fedro. Forse non è un caso: oltre a sottolineare il livello metalinguistico del dialogo, Platone vuole probabilmente mettere in evidenza la “naturalità” del discorso orale rispetto a quello scritto (e della “sapienza” rispetto alla tecnologia). Il discorso orale “vive” al cospetto dell’anima dell’interlocutore: da essa prende forma; allo stesso modo chi parla può difendere il suo discorso dalle critiche di chi ascolta. Non esiste vero “discorso”, perciò, secondo Platone, se non nella relazione tra “viventi”.

“S: Ma questo punto almeno, credo, lo ammetterai, che cioè ogni discorso deve essere costruito come una creatura vivente; deve avere un suo proprio corpo cosicché non manchi né di testa, né di piedi, ma abbia le sue parti di mezzo e i suoi estremi, composti così da essere in armonia tra loro e con l’ intiero.” [14]

fad380eca96a67e1c28c01d141f14066--collageSocrate racconta a questo punto una storia (un mito probabilmente inventato da Platone), che mette in scena in modo critico gli aspetti controversi dell’uso della scrittura; in realtà, proiettandolo nell’ antico Egitto, Platone rappresenta (forse identificandosi nel re Thamus) un problema estremamente attuale al suo tempo: Platone vive infatti in quel IV sec. a. C. che segna il definitivo passaggio nella cultura greca dall’ oralità alla scrittura. Con lui nasce infatti la “filosofia” così come noi oggi la conosciamo.

“S: Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente dell’alfabeto. Re dell’ intiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano essere diffuse presso tutti gli egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’ alfabeto: ‹‹Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria››. E il re rispose: ‹‹O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei l’inventore hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’ interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizia di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti››.” [15]

Nel discorso del re Thamus Platone (attraverso Socrate) sottolinea in particolare due problemi: la necessità di una “scienza delle scienze” (l’epistemologia, potremmo dire con Bateson, che può considerare e governare il rapporto tra scienza e tecnologia) e il rischioso equivoco dell’insegnamento come “travaso” di conoscenze da un testo scritto ad un allievo, cosa che esclude la fondamentale presenza della relazione con il maestro.
Più avanti, sviluppando quest’ultimo spunto, Platone sembra concentrare la sua riflessione sui contorni troppo definiti del discorso scritto, che finiscono per produrre un significato che non ha più “vita”, che non può generarne altri: i caratteri della scrittura segnano il confine tra il significato contestualizzato della relazione (il discorso “vivente”) e quello astratto del sapere tecnologico.

“S: […] Ma molto più bello, io penso, è occuparsene seriamente quando usando l’arte della dialettica e prendendo un’anima congeniale vi si piantano e vi si seminano parole con scientifica consapevolezza. Le quali sono sempre in grado di venire in aiuto a se stesse e a coloro che le hanno seminate e non sono sterili; ma poiché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano in altre indoli esse sono capaci di rendere questo seme immortale, e rendono beato chi lo possiede, quanto può esserlo un umano.”  [16]

II. I contorni della bellezza

“S: Ecco dove l’intero discorso viene a toccare la quarta specie di delirio: quello per cui quando uno, alla vista della bellezza terrena, riandando nel ricordo alla bellezza vera, metta le ali, e di nuovo pennuto e agognante di volare, ma impotente a farlo, come un uccello fissi l’altezza e trascuri le cose terrene, offre motivo di essere uscito di senno. Quel delirio, dico, che è la più nobile forma di tutti i deliri divini e procede da ciò che è più nobile, tanto per chi ne è preso quanto per chi ne partecipa; e chi conosce questo rapimento divino, ed ami la bellezza, è detto amatore.” [17]                                                     img02 (2)Anche Bateson riprende l’immagine della rosa come archetipo della bellezza, riconoscendo in essa una straordinaria traccia della Creatura; ma dove segnare il confine tra la miracolosa perfezione della sua corolla e l’incanto del suo profumo? Forse è in questa indecidibilità che sboccia il piacere estetico: nel tacito, nostro, riconoscimento di un “segreto”, di uno spazio di non comunicazione al quale accostarsi con esitazione…  Calvino però osserva nelle Lezioni americane, alle prese con la possibile definizione di una poetica dell’”esattezza”, che il piacere estetico del “vago” e del “peregrino” si risolve in Leopardi, sul piano del linguaggio poetico, in una estrema attenzione (cioè esattezza) al lavoro sul testo.

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“Ecco dunque cosa richiede da noi Leopardi per farci gustare la bellezza dell’indeterminato e del vago! È una attenzione estremamente precisa e meticolosa che egli esige nella composizione di ogni immagine, nella definizione minuziosa dei dettagli, nella scelta degli oggetti, dell’illuminazione, dell’atmosfera, per raggiungere la vaghezza desiderata. Dunque Leopardi, che avevo scelto come contraddittore ideale della mia apologia dell’esattezza, si rivela un decisivo testimone a favore… Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri. Vale la pena che continui a leggere questa nota dello Zibaldone fino alla fine; la ricerca dell’indeterminato diventa l’osservazione del molteplice, del formicolante, del pulviscolare…

È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto, il potersi perciò spaziare coll’ immaginazione, riguardo a ciò che non si vede […] (20 settembre 1821).”  [18]

E’ curioso osservare come sia di nuovo un “locus amoenus” lo spazio della messa in scena di un metalinguaggio: L’infinito, forse l’esito più complesso di questa poetica leopardiana del “vago”, del “peregrino”, dell’ “indefinito” rappresenta nella sublime suggestione di un paesaggio naturale l’intuizione della poesia (e, quindi, della bellezza) come superamento dei confini (spaziali e temporali) attraverso l’uso del linguaggio.    img02 (3)Il poeta è dunque colui che sa cogliere e attraversare (anche grazie alle sua capacità tecniche) il confine tra le cose e il linguaggio; in questo forse, possiamo riconoscere la sua “follia”.

“S: […] V’è una terza forma di esaltazione e delirio, di cui sono autrici le Muse. Questa, quando occupa un’anima tenera e pura, la sollecita e la rapisce nei canti e in ogni altra forma di poesia, e celebrando le infinite opere del passato, educa i posteri. Ma chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse, convinto che la sola abilità lo renda poeta, sarà un poeta incompiuto e la poesia del savio sarà offuscata da quella dei poeti in delirio.”  [19]

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III. La cornice della saggezza.                          img02 (1) Se immaginiamo di leggere i metaloghi di Bateson (almeno ad un primo livello) come una costante riflessione sul rapporto tra innocenza ed esperienza (“P.” e ” F.” giocano spesso ad invertire i propri ruoli: “tram” o “autobus”, a seconda dei casi) e (ad un secondo livello) sul senso stesso dell’interrogarsi in due sui modi della conoscenza (il “metalogo”), Perché le cose hanno contorni? sembra particolarmente significativo. Due aspetti, forse, emergono sullo sfondo della parte finale: innanzitutto non è possibile vedere i contorni delle cose (e della “conversazione” sulle cose) quando ci si è ancora “dentro”; in secondo luogo il “saggio “(P.) sa guardare le cose da una prospettiva “ultima”, finale (“la mente d’aquila del vecchio” di Yeats) proprio perché non è più “dentro” le cose. La “confusione”, o meglio la “non conclusione” finale, è in realtà una voluta (saggia) accettazione del carattere in parte sfuggente, imprevedibile, mutevole dei contorni linguistici e non all’interno dei quali si muove la nostra conoscenza del mondo. Lo stesso Platone, del resto, che pure chiude il Fedro (un “dialogo” anch’esso giocato sull’incerto confine tra innocenza ed esperienza) in modo sicuramente più definito, lascia un’apertura problematica nella distinzione finale tra “sapiente” e “filosofo”.

“S: Ma chi , d’altra parte, ritenesse che […] quindi solo nei discorsi sulla giustizia, sull’onore e il bene, esplicati e detti al fine d’imparare, nei discorsi realmente scritti nell’anima, in essi solo c’è lucidità, perfezione e motivo di seria cura; e che tali discorsi debbano essere considerati dal suo autore come fossero suoi figli legittimi […] , questi, o Fedro, quest’uomo è probabile che sia quel che tu ed io vorremmo diventare.”  [20]

“F: E qual nome gli assegni?

S: Chiamarlo sapiente mi sembra, Fedro, eccessivo, e conveniente solo a un dio; ma chiamarlo amico della sapienza o qualcosa di analogo, meglio si adatterebbe e converrebbe all’ esser suo.” [21]

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“F. Che cosa vuol dire per te che una conversazione ha un contorno? Questa conversazione ha avuto un contorno?

P. Oh, certamente sì. Ma ancora non possiamo vederlo, perché la conversazione non è ancora finita. Non si può vederlo mai, quando ci si è in mezzo. Perché se tu potessi vederlo, saresti prevedibile – come una macchina. E io sarei prevedibile, e noi due insieme saremmo prevedibili…

F. Ma io non ti capisco. Prima dici che è importante essere chiari nelle cose. E poi ti arrabbi con le persone che confondono i contorni. E poi pensiamo che è meglio essere imprevedibili e non essere come macchine. E tu dici che non possiamo vedere i contorni della nostra conversazione finché non è finita. Allora non ha importanza se siamo chiari o no. Perché tanto non possiamo farci niente…

P. Sì, lo so… e io stesso non capisco… Ma, comunque, chi ha voglia di farci niente?” [22]

Autori:  Maria Rocchi e Roberto Bertilaccio

Photo Collage Waldemar Strempler

Note:

1) G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 2000 (2°ediz.). pag. 58

2)  Ibidem pag. 174

3) Ibidem pag.184

4) G. Bateson, Una sacra unità, pag.266

5) G. Bateson, Verso un’ecologia della mente pag.169

6) P.Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, pag. 29

7) A.M. Iacono, Metacomunicazione e attraversamento dei contesti, in M.Deriu (a cura di), Gregory Bateson, Bruno Mondadori, Milano, 1998, pag. 193

8) G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, pag. 62

9) S. Manghi, Il gatto con le ali, Milano, Feltrinelli 1990, pag.19

10) G.Bateson, Gioco e paradigma, in Aut-Aut, 269, 1995, pag.42-43

11) K.Blixen, cit. in A.Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Milano, Feltrinelli 1997, pag.7

12) G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, pag. 61

13) Platone, Fedro, V, Bari, Laterza, 1998

14) Platone, Fedro, XLVII, Bari, Laterza, 1998

15) Platone, Fedro, LIX, Bari, Laterza, 1998

16) Platone, Fedro, LXI, Bari, Laterza, 1998

17) Platone, Fedro, XXX, Bari, Laterza, 1998

18) I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, pag. 61-62

19) Platone, Fedro, XII, Bari, Laterza, 1998

20) Platone, Fedro, LXIII, Bari, Laterza, 1998

21) Platone, Fedro, LXIV, Bari, Laterza, 1998

22) G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, pag. 63

Le poesie di William Butler Yeats sono tratte da “Quaranta poesie”, Torino, Einaudi, 1965 e 1983